Giuseppe, l'uomo dei sogni maestro dell'ascolto
Nella chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma si fronteggiano due gruppi marmorei – da una parte l’Estasi di santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini, dall’altra il Sogno di san Giuseppe di Domenico Guidi – che raffigurano due diverse modalità del rapporto con Dio.
L’estasi, secondo l’etimologia greca, indica lo “stare fuori di sé” e caratterizza una relazione mistica, in cui la mente sembra abbandonare il corpo ed entrare in un contatto immediato con Dio. Il sogno invece richiede di “entrare dentro di sé” per riconoscere nella psiche l’altra parte, sconosciuta alla coscienza, come insegna la psicoanalisi, oppure la presenza di Dio, come mostrano l’Antico, ma anche il Nuovo Testamento.
Nell’Estasi di santa Teresa un cherubino sorridente scaglia una freccia per colpire la santa al cuore, nel Sogno di san Giuseppe un angelo tocca delicatamente con la mano destra la spalla di san Giuseppe dormiente, mentre con la sinistra gli indica la strada. L’opera di Domenico Guidi esprime in sintesi plastica l’importanza che i sogni hanno nella vita di Giuseppe, come raccontano anche le prime pagine del Vangelo di Matteo, le uniche che ci parlano del compito che gli è stato assegnato da Dio: quello di assumersi la paternità del figlio di Maria.
Negli altri Vangeli la paternità di Giuseppe resta invece in ombra, offuscata dalla ben più luminosa paternità divina. Nella genealogia Luca dice che «si credeva che Gesù fosse figlio di Giuseppe», lasciando intendere che la sua paternità fosse “solo” putativa (dal latino puto che significa “credo”). Marco e Giovanni poi non parlano mai di Giuseppe e nominano Gesù sempre come «figlio di Dio» o «figlio dell’uomo».
Colpisce anche che Giuseppe, a differenza di Maria, non pronunci mai parola alcuna, nemmeno quando, dopo tre giorni di pena, insieme a Maria ritrova Gesù nel tempio a discutere con i sacerdoti. Interrogandoci però su questo silenzio e seguendolo nei suoi sogni possiamo scoprire non solo l’importanza che Giuseppe riveste nella vita del Cristo, ma anche il valore esemplare che ancora oggi rappresenta per noi. Giuseppe è molto giovane, probabilmente intorno ai diciotto-vent’anni, quando si trova ad affrontare, all’improvviso, una situazione drammatica. Sembra che gli artisti che lo raffigurano quasi sempre come vecchio non possano credere che un uomo così giovane sia capace di assumersi la paternità del Figlio di Dio.
Nella nostra epoca, in cui la figura del padre sembra sempre più sbiadita a fronte di un generico ruolo genitoriale, il suo esempio ci invita a ridare valore al padre e al ruolo che è chiamato a svolgere nella famiglia e nella società.
Giuseppe si prende cura del Bambino e di Maria, fin dall’inizio. Dando al figlio il nome di Gesù se ne assume la paternità legale e la responsabilità che ne deriva: come ogni padre ebreo si preoccuperà personalmente della sua educazione scolastica e religiosa. È quindi vicino sia fisicamente che spiritualmente al figlio. Vicinanza importante anche per le figlie, ma che assume un valore particolare per i maschi a cui il padre trasmette anche aspetti profondi dell’identità maschile. Sapendo che Gesù è figlio di Dio riconosce di essere strumento di un progetto più grande di lui e rinuncia a proiettare sul figlio le proprie aspettative. Assumendone consapevolmente la paternità adottiva, mostra il valore sociale della paternità: ciascuno può, entro certi limiti, essere padre a chi ha bisogno di lui. Giuseppe ci insegna così che la paternità si iscrive nell’ordine del dono, di quella gratuità dell’amore che supera i legami di sangue e ne crea di nuovi.
Promuovendo il 2021 anno dedicato a san Giuseppe, papa Francesco invita la Chiesa, in coerenza con la verità di fede che Dio è Padre, a valorizzare la figura del padre nell’esperienza quotidiana, ma nello stesso tempo indica a tutti una strada: ci ricorda che l’esercizio consapevole della paternità è indispensabile per offrire ai figli e alla società intera una risposta alla crisi educativa e, di più, una prospettiva di salvezza.