Il segno del padre - nuova edizione
Nel destino dei figli e della comunità.
Moretti&Vitali ottobre 2005 per ordinare il volume: www.moretti&vitali.it
Nell’epoca moderna, da Amleto ai nostri giorni, l’immagine del padre, sia di quello terreno che di quello divino, si è sempre più sbiadita, tendendo a scomparire dalla vita della comunità e generando nei figli un vuoto spesso incolmabile. In un confronto serrato col pensiero di Jung, l’autore mostra come tale immagine sia stata, per nostra fortuna, sapientemente conservata dall’inconscio collettivo. Nei miti e nei sogni, ma anche nei testi sacri e nella poesia, è infatti possibile rintracciare l’archetipo del Padre, vera e propria immagine guida, in grado di aiutare uomini e donne a dare un senso autentico al proprio destino.
Prefazione di Claudio Risé
L’individuo della tarda modernità occidentale è – come sa chiunque lavori con la sofferenza in modo profondo – orfano della presenza paterna. Ma è anche orfano di una riflessione psicologica di vasto respiro su questa scomparsa.
La psicoanalisi cresce proprio con la geniale intuizione di Freud sull’importanza del superamento del rapporto conflittuale e di desiderio verso il padre, la situazione edipica, nella formazione della personalità individuale e nel suo equilibrio psicologico. Quando però questo padre da odiare e amare diventa storicamente e psicologicamente inafferrabile, in particolare dagli anni 70 del novecento in poi, anche la psicoanalisi sembra defilarsi da un’accurata registrazione ed approfondimento della questione. Certo, si constata spesso in tono evasivo che la libido fluisce in direzione autoerotica, narcisistica, piuttosto che verso il confronto con l’altro, inaugurato da quello col padre, col mondo. Cosa fosse però questo specifico paterno, apparentemente non più vivente, e quali le conseguenze della sua sparizione, continua ad esser ampiamente taciuto. Anche se negli ultimi anni questa tendenza si è attenuata; ma più per contributi venuti, negli USA e in Italia inizialmente, da quel vasto disagio identitario poi denominato “movimento degli uomini” ( che ha accompagnato sia i libri di Robert Bly, che i miei), che dall’ambito analitico vero e proprio.
Particolarmente orfano di padre appare, tranne che negli USA (forse perché lontani dal luogo dell’origine, e quindi meno condizionati da essa), il mondo analitico junghiano. La psicologia analitica in Europa (quando lo fa) descrive la figura paterna più come una nostalgia ormai evanescente da secoli, che come una figura operativamente presente e forse indispensabile nella psiche umana. Del resto, al contrario che nel freudismo, lo stesso legame col padre fondatore è sempre stato debole tra gli junghiani, tra i quali la preoccupazione della differenziazione individuale ha sempre prevalso su quella della valorizzazione del lignaggio. Se James Hillman preferisce chiamare “ghianda” il sé, ciò nasce – a mio parere – oltre che da una interessante intuizione dell’autore - da un legame, anche affettivo, col padre fondatore piuttosto debole all’interno di questa corrente di pensiero.
Tra le principali ragioni di questa debolezza non poteva non esserci, naturalmente, lo stesso Jung. Si sa del suo relativo scetticismo di fronte agli sforzi destinati a trasmettere istituzionalmente il suo pensiero e ad organizzare i seguaci, iniziative devolute molto volentieri ad allievi più interessati alla gestione del potere. Qualcuno ricorda anche la visita al caposcuola degli junghiani italiani, guidata dal loro maestro Ernst Bernhard, con Jung che non si privava dal commentare : “Meno male che sono Jung, e non uno junghiano.”
Le perplessità sulla discendenza rimandano anche, però, a incertezze sul senso e l’esperienza di sé come figlio e del proprio genitore come padre. Uno dei meriti singolari di questo bello e accurato libro di Paolo Ferliga è proprio quello di presentare quello che, almeno in Italia, è rimasto finora ampiamente sconosciuto e cioè il complesso e mai risolto nodo del rapporto tra Jung e suo padre. Che non era affatto un oscuro pastore protestante di campagna, come il figlio tende a presentarlo, ma un uomo singolarmente colto per l’epoca, che conosceva bene arabo ed ebraico e aveva lavorato ( come nella sua tesi all’Università di Gottinga) direttamente su commentari ricercati e poco conosciuti, dei testi sacri. Affrontando anche temi profondi della tradizione religiosa ebraico cristiana, come il lato “oscuro” di Dio, che diventerà poi terreno di ricerca di Jung e dello junghismo. Johannes Paul A. Jung, è vero, non riuscì a venire a capo di questo grande e misterioso, tema: ma c’è da chiedersi se il figlio, che non riconobbe autorevolezza alla ricerca del padre, sia poi giunto, in materia, ad arrivi più conclusivi, al di là dell’enorme materiale erudito accumulato sull’argomento.
Il problema non risolto col padre finì, per Jung come per gli altri esseri umani che vivono questo dramma, a intorbidare e togliere forza e chiarezza ad aspetti non secondari della sua vita. Qui Ferliga analizza con notevole precisione gli effetti che questo fatto ebbe proprio sull’oggetto di studio di questo libro: la funzione paterna e le patologie conseguenti ad una sua manifestazione disfunzionale. Jung riconobbe l’importanza del padre nel destino dell’individuo, ma non vide d’altra parte l’esistenza di un autonomo Archetipo del padre. Confondendolo volta a volta con la figura del Vecchio Saggio ( che non sempre il padre è) e più generalmente con l’Archetipo dello Spirito. Col risultato, a mio parere, di “tagliar fuori” dalla relazione archetipica col padre ( e quindi dalla sua energia, anche terapeutica) tutta una serie di momenti dell’attività del padre molto carnali, fisici, per nulla spirituali e tuttavia fondativi della paternità. Mi riferisco, per esempio, all’intervento, doloroso, sui figli per separarli dalla simbiosi con la madre, così come all’attività paterna per addestrare la loro conoscenza del proprio corpo, dei corpi al di fuori di sé, da quelli umani a quelli naturali, o per iniziarli alle strutture materiali del mondo. Certo, tutto questo essere e “fare” paterno ha, anche, un aspetto spirituale. Ma non è direttamente – a mio modo di vedere - da un Archetipo dello Spirito che quest’attività così materiale e concreta procede. Si tratta piuttosto, mi sembra, della manifestazione dell’ Archetipo di un Padre che mette il figlio nel corpo dell’uomo, attraverso la collaborazione, determinante, del femminile, dell’anima verginale e senza brame personali, che accetta di generare il nuovo mondo. Il Padre di cui parla la tradizione ebraico-cristiana.
Nel lavoro analitico, che quando non è esercizio intellettuale o operazione commerciale è incontro con la sofferenza, che ogni volta riparte, e ritorna alla nostra, personale, è decisivo che la teoria che ispira l’intervento e la tecnica che ne consegue, sia sgombra da elementi biografici non pienamente riconosciuti dal terapeuta, che fatalmente ne limitano l’efficacia e la possibilità di sviluppo. Anche da questo punto di vista considero coraggioso e importante questo testo, che colloca la figura del padre, uno dei problemi psicologici centrali del nostro tempo, all’interno della ricca esperienza della psicologia analitica messa a punto da Carl Gustav Jung, segnalandone con franchezza ed equanimità i punti di forza e le zone d’ombra ancora da superare.