Falsi abusi a Brescia: una nuova Colonna infame

Si è concluso dopo sette anni (18.5.2003 - 5.5.2010) il processo dell'asilo Sorelli con la sentenza pienamente assolutoria di Cassazione, che mette la parola fine ad uno straordinario caso di accusa per reati di pedofilia mai commessi, che ha travolto in un vortice di sospetti ed accuse alcuni cittadini, le istituzioni scolastiche e civili della città di Brescia.

Segue un Dossier pubblicato sulla rivista "Città & Dintorni" (n° 102, Brescia, sett-dic 2010, pp. 59-73)

La sentenza sul caso Sorelli
Francesca Bazoli

La prima decade del nuovo millennio ha visto consumarsi nella nostra città una grande tragedia.
La tragedia di uomini e donne ingiustamente accusati di un reato infame, persone normali che ad un tratto sono state private di ogni rispettabilità sociale, del lavoro, a tratti perfino della libertà, gettate d’improvviso in un folle incubo che ha completamente stravolto le loro vite e quelle dei loro cari trasformandole in un quotidiano, lunghissimo calvario.
La tragedia di genitori che non hanno saputo distinguere il vero dal falso, non hanno saputo arginare i loro incubi e si sono convinti, nella maggior parte dei casi in buona fede, che proprio i loro bambini, in tenera età, avessero subito uno dei mali peggiori che si possano immaginare per un piccolo.
La tragedia di bimbi sottratti alle loro maestre d’asilo, ai loro giochi e alla quotidianità della loro vita in forza di terribili sospetti, sottoposti ad interrogatori ed indagini tanto gravosi quanto privi di senso, alla luce della verità dei fatti, trattati come vittime di violenze mai subite.
Ed accanto a queste tragedie che hanno investito la vita si singole persone il malessere profondo di una comunità cittadina che ha dovuto confrontarsi con il sospetto che alcune delle proprie scuole dell’infanzia, considerate da sempre un modello di buona ed efficiente istituzione educativa, si fossero trasformate nel teatro di delitti osceni ripetuti nel tempo.
L’anno duemiladieci ci ha portato la sentenza definitiva della Cassazione per l’asilo Sorelli: nessun abuso è mai stato commesso, maestre ed ausiliari sono innocenti anzi, sono loro le vere vittime della vicenda. La città è salva, due volte salva, perché nulla di male è accaduto ai suoi bambini nell’asilo pubblici e perché la verità ha infine prevalso sulla menzogna e sul sospetto.
Come nel racconto biblico, la città è stata salvata da pochi giusti. Non sapremo mai quanti esattamente essi siano, ma alcuni li conosciamo.
Emerge tra di loro la figura possente di un uomo quasi folle per coraggio e generosità, innamorato di Dio e degli uomini, che, avendo scoperto l’ingiustizia che si stava commettendo in nome della giustizia, ha disperatamente cercato con ogni forza di svegliare i suoi concittadini dal sonno della ragione, mentre ogni giorno condivideva con gli accusati il peso della loro sofferenza. Il suo nome è don Mario.
E poi una donna, che oggi non c’è più: suor Maria non ha avuto alcuna incertezza nel capire la situazione e schierarsi nella difesa della vere vittime perché conosceva fin troppo bene la realtà dei veri abusi, essendosi occupata una vita intera di bambini e ragazzi abbandonati ed emarginati.
E poi un’altra donna, che invece le conseguenze degli abusi veri le conosce dal punto di vista scientifico meglio di chiunque altro, venuta dall’altra parte dell’oceano a smascherare i grossolani errori commessi da qualche esperto non troppo esperto e tornata più di una volta, senza compenso, motivata solo dall’esigenza per lei imperativa che non fossero condannati degli innocenti.
Ed ancora, tra i giusti che hanno salvato la città, oltre che i loro assistiti, ci sono alcuni avvocati che hanno difeso nel processo gli imputati con smisurato impegno, determinazione, profusione d’intelligenza e di competenza, ben al di là di quanto richiesto dal diligente adempimento di un mandato professionale o dall’inesistente compenso, perché hanno sentito la battaglia per la verità dentro il loro cuore oltre che nella mente, per il bene dei loro assistiti e della loro città.
E poi i magistrati che hanno cercato con diritta coscienza di capire cosa fosse effettivamente successo, al di là di ogni apparenza e facile conclusione, e hanno saputo assumersi la responsabilità di dire quale fosse la verità. E altri ancora, tra cui è bello ricordare i genitori che hanno avuto la forza di sottrarsi al perverso “contagio”.
L’epilogo della storia che la nostra città ha vissuto non è stato dunque drammatico come il suo svolgimento, ma questo epilogo evidentemente non cancella la sofferenza patita dagli innocenti ingiustamente accusati, né da risposte agli interrogativi sulla genesi ed il senso di questa vicenda.
Certo, le sentenze ricostruiscono con grande precisione di dettagli ed argomentazioni l’origine ed il diffondersi del “contagio psicologico” che ha investito le scuole, danno conto degli errori commessi dai vari attori, anche esperti a diverso titolo, intervenuti sulla scena, descrivono lo svolgimento impressionante dei fatti.
Resta però, come davanti ad ogni tragedia, lo sconcerto che deriva dal constatare quanto sia potente il male nel servirsi delle debolezze dell’uomo - tante ce ne sono state in questa vicenda e variamente diffuse tra i vari attori della stessa - per sovvertire l’ordine buono e naturale delle cose e sconquassare la vita degli altri uomini, trasformando in questo caso gli innocenti in colpevoli, la ricerca della verità in strumento di persecuzione, facendo apparire verosimile quello che era folle credere possibile, creando vittime fasulle, con i sembianti di innocenti bambini, per rendere vittime vere gli apparenti persecutori.
Se dunque, nel “caso Sorelli”, questa città ha evitato la suprema ingiustizia che è la condanna di un innocente e se, a differenza di altri casi drammatici della storia cittadina, abbiamo una sentenza che afferma la verità dei fatti storici, rimane tuttavia come tema ineludibile per la comunità bresciana la dovuta attenzione alla sofferenza patita da questi nostri concittadini che sono stati ingiustamente accusati, vittime colpite a causa ed in relazione all’adempimento della loro missione civile di educatori.
La città non può evidentemente dare risposte a questa sofferenza né cancellarla, ma ha il dovere morale, a nostro avviso, di riconoscerla, e quindi di riabilitare in ogni modo possibile le vittime dell’ingiusta accusa e di sostenerle e di risarcirle anche con aiuti economici adeguati.
Al fine di alimentare la riflessione su quanto accaduto, secondo la vocazione propria di una rivista culturale, abbiamo formulato alcune domande, che in questo numero abbiamo incominciato a proporre a Carla Bisleri, Paolo Ferliga, Piergiorgio Vittorini, augurandoci che possano diventare lo spunto per un allargamento del dibattito.

Spunti per una riflessione non episodica

1. Si è concluso dopo sette anni (18.5.2003-5.5.2010) il processo Sorelli con la sentenza pienamente assolutoria di Cassazione, che mette la parola fine ad uno straordinario caso di accusa per reati di pedofilia mai commessi, che ha travolto in un vortice di sospetti ed accuse alcuni cittadini, le istituzioni scolastiche e civili. Si tratta a Suo avviso di una nuova Storia della Colonna Infame di manzoniana memoria? Come inquadrare al di là delle metafore ciò che è accaduto?

Carla Bisleri (Assessore pubblica istruzione Comune di Brescia 1994-2008)
Anche a distanza di anni mi è difficile rileggere con razionalità il trauma che ha scosso la nostra città e mi ha duramente provata.
Questa esperienza ha cambiato la mia visione del mondo, come un grande lutto o perdita, quando ti senti dire - sono cose che segnano - …Al  “segno” non ho ancora dato una forma definitiva, ho cercato tante spiegazioni, altre le ho lasciate cadere, in questa sede abbozzo un’ulteriore riflessione. Come è noto, allora decisi di mantenere uno stretto riserbo e un rigoroso silenzio, interpretando fino in fondo e con responsabilità il ruolo istituzionale che rappresentavo.
Ho accolto con sollievo e conforto la sentenza definitiva; nell’affermare che non ci sono stati abusi all’asilo Sorelli, i giudici hanno assolto le persone accusate, messo fine a un caso giudiziario che ha sconvolto e colpito le nostre scuole per l’infanzia, diviso la città, seminato sfiducia, panico e paura. Quando ripenso alla mia testimonianza nel contesto di quegli anni
- rivedo la fermezza che ho dovuto mantenere per governare un momento delicatissimo e difficile, per tutelare il valore delle scuole, un’istituzione storica che rappresenta la tradizione di una città civile e impegnata nell’educazione
- risento l’eco del dolore e della sofferenza provati, che ho accolto e conosciuto in molte persone
- ritrovo la forza e le capacità che ho cercato, che insieme abbiamo cercato, giorno dopo giorno per dare risposte adeguate a un’emergenza imprevedibile, lacerante e traumatica
- la speranza per far posto al bene laddove si voleva far dilagare il male
- la fiducia per costruire e proteggere contro una furia distruttiva, invadente e pericolosa.
Oggi riaffiora il dispiacere per le persone accusate, il mio pensiero va alle vittime innocenti che nonostante le calunnie e le accuse infamanti subite, hanno atteso il responso di un iter giudiziario lungo e doloroso, con un comportamento esemplare, pagando con  l’isolamento e per due maestre anche con il carcere, le conseguenze di un incubo contagioso che ha travolto e distrutto la loro vita e quella delle loro famiglie. La sentenza non le ripaga per il torto subito, ma restituisce loro e alla nostra comunità giustizia e verità.
Una comunità che, invasa dal terrore, ha perso il proprio tradizionale equilibrio, confuso vittime e aggressori, invertito i ruoli tra giustizia e politica, lasciato prevalere un’ondata distruttiva e lacerante che ha rischiato di mandare in frantumi il buon livello di coesione sociale raggiunto.
É vero, ci sono analogie con “La storia della Colonna Infame”, precocemente ben osservate da Don Mario Neva. Le più evidenti a mio avviso sono nell’insinuazione di un avvenimento (come è cominciato tutto?) che ha fatto scattare una generica accusa, ripetuta ossessivamente fino a dilagare nel contagio, nell’abuso di potere anche giudiziario che ha calpestato buonsenso e pietà umana, nelle credenze personali quando sono assurte a verità assolute e inconfutabili (e prescindono dai fatti e prove tangibili), nella diffusione capillare del sospetto e della calunnia.

Piergiorgio Vittorini (Avvocato della difesa)
Se dovessi dare una risposta nell’ottica ristretta dell’avvocato potrei (con molta ipocrisia) limitarmi a dire che la vicenda si inquadrerebbe in una “normale” dinamica processuale: c’è chi accusa e chi si difende. Il giudice acquisisce le prove a carico e a discarico e pronuncia la sentenza. In questo caso di assoluzione perché il fatto non sussiste. Giustizia trionfa e…tutti vissero felici e contenti (!?).
Purtroppo non è questo lo stato dell’arte. La vicenda dell’asilo Sorelli sconta presupposti e sviluppi che non possono essere contenuti nel perimetro del processo. Tant’è che neppure tre sentenze (primo grado, appello e cassazione) consecutivamente  assolutorie hanno pacificato protagonisti e non addetti ai lavori. Residua un pesante strascico di animosità da parte di chi ancora si dichiara convinto che gli abusi siano stati commessi. Permane negli assolti la sensazione di un cordone sanitario che li esclude dal contesto cittadino e lavorativo. Durante il dibattimento ad una delle mamme (costituitasi parte civile) venne ripetutamente posta la seguente domanda: «Si augura che il processo si concluda con una sentenza di assoluzione certificante che il suo bambino non è stato abusato, oppure una sentenza di condanna, con la conseguente certezza che il suo piccolo avrebbe subito violenza?». Contro ogni aspettativa quella signora si ostinò a non rispondere, dimostrando così di escludere ogni alternativa rispetto alla convinzione che i “fatti” fossero accaduti. Era la morte di ogni speranza: nella sua mente e, purtroppo, anche nel suo animo il male era certezza indubbia ed indubitabile: storia non sovvertibile neppure attraverso la verifica accanita e puntuale del processo.
Il declino della ragione? Non saprei dire. Forse qualcosa di più e di più grave, poiché non si trattò della devianza di un singolo, ma di un sentire diffuso ed esteso ad una collettività. E quel che è peggio senza il minimo riscontro fattuale ed anzi contro ogni evidenza di innocenza.

Paolo Ferliga (Psicoterapeuta)
Certo, il processo Sorelli ricorda la Storia della Colonna Infame, in cui Manzoni ricostruisce il processo che nel 1630 condannò a morte due presunti untori, ritenuti responsabili del diffondersi della peste a Milano. Anche nel caso di Brescia degli innocenti sono stati sottoposti a processo e, prima dell’esito finale di assoluzione, hanno subito qualcosa di analogo alle torture inflitte allora ai poveri untori. Non possiamo dimenticare che a due maestre è stata comminata una custodia cautelare che le ha portate in carcere per dieci mesi e poi per altri dodici, agli arresti domiciliari. Come era già accaduto per un bidello della scuola materna Abba, anche lui sotto un’accusa infamante, quella di pedofilia. Con loro altri innocenti (personale della scuola, soggetti esterni, sacerdoti) hanno subito una vera e propria persecuzione, che rischia di lasciare un segno indelebile.
In particolare ciò che accomuna la situazione di oggi a quella di ieri è la diffusione di un contagio psichico che ha portato molte persone, troppe, a credere a un’accusa che si è poi rivelata priva di ogni fondamento. Abbiamo assistito, ancora una volta, alla caccia agli untori, alla ricerca di un capro espiatorio che consentisse di evacuare l’ansia suscitata in alcune persone da paure inconsce.
La differenza invece, consiste nel fatto che mentre gli untori non esistevano, i pedofili esistono. Per questa ragione la paura legata alla pedofilia ha un suo fondamento in comportamenti reali. Il semplice sospetto che un bambino ne possa essere vittima si trasforma facilmente in angoscia e terrore, un terrore che quanto più resta inconscio tanto più viene amplificato. La pedofilia suscita orrore in quanto si presenta come la perversione più radicale dell’amore istintivo che come esseri umani proviamo per i bambini. Il termine pedofilia, che letteralmente significa amore per i bambini, non rende certo il senso della gravità di tale perversione, talmente grave che anche Gesù, nel Vangelo, sembra condannarla senza possibilità di appello. Proprio la gravità di tale crimine richiede dunque molta cautela nel condurre indagini e nel formulare accuse. Solo in questo modo è possibile tutelare davvero i bambini impedendo che divengano vittime, quando non lo sono dei pedofili, delle paure inconsce di chi vive con loro o di chi dovrebbe tutelarli.


2. La convinzione che fosse accaduto qualcosa di grave è stata condivisa almeno per un anno quasi all'unanimità... come spiegare questa attitudine al consenso e questa intensa e immediata adesione al negativo di una intera città, in un'epoca in cui il consenso totale sembra diventato così difficile?

Carla Bisleri.
Non sono certa che il consenso fosse unanime, sentivo pareri articolati e contrari, ma di sicuro le voci dominanti propagandate dai media asserivano con certezza l’accaduto, e insieme a quelle della speculazione politica hanno avuto il sopravvento, il dissenso era inascoltato, condannato al silenzio, la difesa degli accusati solo tramite i loro avvocati. Non c’è spazio per il contraddittorio quando si innesca una denuncia di gruppo, come una miccia sulla benzina propaga il fuoco che, secondo alcuni, è stato anche intenzionale e premeditato.
Prima del giustizialismo forcaiolo e sommario, si è manipolata la realtà con l’invenzione di un crimine, tra i più odiosi e deprecabili, per scandalizzare, impaurire e attaccare, noncuranti che sarebbe stata una  tragedia comunque fosse andata a finire.
Si può inquadrare l’accaduto con diversi registri di lettura, ciascuno con una propria legittimità che meriterebbe uno specifico approfondimento. Da quello sociale, al mediatico, politico, populistico e di massa, della devianza e corruzione, a quello della giustizia.
Alla luce di ciò che sta accadendo in questi mesi alla Chiesa, mi colpisce la coincidenza nel voler estendere il reato di pedofilia da uno o più persone presunte colpevoli, all’intera istituzione.
Un accanimento molto presente nella nostra vicenda locale: “la mela marcia intacca tutti”. Mentre dal punto di vista razionale era proprio l’esagerata accusa rivolta a tutta la scuola a rendere il fatto improbabile e svuotare il castello di imputazioni, nel delirio di chi ci ha creduto, nei molti ambienti dove si è speculato ferocemente o per scarsa professionalità, si voleva scambiare per un covo di pedofili, violenti e satanici una scuola.
La pedofilia è un reato individuale che nel 97 % avviene in famiglia, i casi entrano ed escono dai tribunali - quando sono scoperti - e salvo rare occasioni, non fanno notizia.
É perciò strano questo modo di denunciare le istituzioni pubbliche (scuole,oratori, società sportive) viste come luoghi deviati di bande organizzate, anche in altri casi recenti, non solo italiani. Un allarme che contiene l’impulso di nuove paure, ma soprattutto la voglia di denigrazione “allora niente funziona, i criminali sono ovunque si salvi chi può e i paladini dell’ordine e sicurezza siamo solo noi”: l’occulta fabbrica che per vendere notizie scandalo-denuncia, propaganda in modo sofisticato un prodotto dal clamore assicurato, nel vortice consumistico dell’informazione.
Invece, quando dopo molti anni si conoscono l’esito dei processi e la verità sui fatti, la notizia non interessa più e non occupa mai intere pagine dei giornali come al momento iniziale.

Piergiorgio Vittorini
La spiegazione dell’attitudine al consenso si spiega in un passaggio della domanda. Oggettività e libertà di pensiero sono oggi criteri di condotta solo ostentati, ma non praticati. Dietro la superficie delle affermazioni di principio non si trovano gli argomenti a sostegno, le ragioni meditate, il bilanciamento delle contrapposizioni.
Ne consegue che si “prende partito”, ci si accoda ad una bandiera seguendone il tragitto acriticamente. La collettività si divide in fedeli ed eretici. Si erigono muri dai quali insultarsi reciprocamente. Ed in quei muri viene imprigionato ogni tentativo di dialogo. Chi ne praticasse viene bollato come traditore od ignavo. Cosicché anche l’esito processuale, l’acquisizione delle prove nel contraddittorio fra le parti e sotto il controllo del giudice diventano inaffidabili quando contrarie alle aspettative di una delle parti in conflitto.
Quanto all’adesione al negativo si rifletta su una circostanza di lampante immediatezza: il negativo è sempre e solo altrui. Il male non appartiene all’accusatore, a chi si rappresenta vittima. E’ prerogativa dell’altro, meglio se ‘minoranza’, meglio ancora se singolo ed indifeso, perché così diventa più facile renderlo indifendibile a priori e,quindi, colpevole.

Paolo Ferliga.
La condivisione di una convinzione che poi si rivela del tutto priva di un rapporto con la realtà fattuale, si basa su meccanismi inconsci. Nel caso in cui tale convinzione accomuni molte persone siamo in presenza di un fenomeno di contagio emotivo caratterizzato da una forte diminuzione della responsabilità personale (fenomeno descritto da Freud già nel 1921 in Psicologia delle masse e analisi dell’Io). Si tratta di una situazione in cui  ciascun individuo perde la propria capacità di giudizio ed è agito da forze inconsce che seguono la dinamica del contagio.
Può sembrare paradossale, se si pensa al cammino della ragione e allo sviluppo della scienza, ma nella società contemporanea l’omologazione degli individui, legata alle necessità del sistema dei consumi, rende i singoli sempre più identificati con la dimensione collettiva, quindi sempre più incapaci di un autonomo giudizio razionale e più esposti al pericolo di un contagio psichico di tipo collettivo.
É importante ricordare che il caso Sorelli non è isolato, ma si sviluppa dopo quello della scuola materna Abba e prima di quello della Carboni e della S. Filippo Neri. Tutto nasce all’Abba dove la parte dell’untore viene cucita sul bidello, che per primo deve subire il dolore e l’umiliazione della carcerazione. La condanna si configura subito, nella psiche collettiva, come indice di colpevolezza e consente che il contagio inizi a diffondersi, prima tra alcune mamme, poi all’interno e fuori dalla scuola. Le maestre che chiedono di passare dall’Abba alla Sorelli diventeranno, loro malgrado, portatrici del contagio. Chi origina o trasporta il contagio deve espiare una colpa che non ha commesso. Diviene così il capro espiatorio che consente agli altri, alla comunità, di dare un senso apparente ad ansie e paure inconsce. La colpa, veicolata dal contagio, segue così un altro meccanismo inconscio: quello della proiezione dell’ansia e della paura sull’altro. L’individuazione di un colpevole consente di alleviare l’ansia e di sopportare la paura. Ciò vale sia nei rapporti personali che nelle dinamiche di gruppo.


3.    A fronte di errori evidenti e grossolani commessi da alcuni magistrati, inquirenti, esperti periti, psicologi e psicologhe alla fine la verità storica e giudiziale ha prevalso, grazie anche al lavoro efficace svolto da alcuni avvocati, giudici ed esperti psicologi: come valutare questo intreccio di ombre e di luci?


Carla Bisleri.
La catena di errori ha agito come una valanga, spinta da un eccesso di emozioni collettive, che si rinforzavano per confermare i sospetti. Per le mie conoscenze e studi disciplinari è un argomento vasto e suggestivo. Richiama i moventi psicologici dei gruppi quando riverberano la paura ancestrale, o il desiderio che conferma il timore dell’originaria violenza delle istituzioni, dal cui conflitto ha preso avvio la nascita della civiltà, il principio dell’ordine e della legge.
Sul piano dell’interpretazione simbolica mi sono chiesta quale fosse il motivo che ha indotto una così vistosa regressione nella nostra comunità, fino al punto del caos primordiale e dell’orda dove tutto è confuso e indistinto? Il cambiamento sociale in atto? L’incertezza verso il futuro?
Da dove sono partite le scissioni che come in un domino hanno travolto i rapporti tra le persone, in risposta all’imperativo- richiamo “non ti devi fidare di nessuno, non c’è sicurezza”, su cui hanno speculato i cinici profeti della paura, figure corruttibili e in malafede, insieme ai politicanti che li assecondavano?
Penso che per spiegare una complessa e intricata vicenda come questa, non basti avvalorare una tesi unica su altre: caso politico, follia collettiva, malagiustizia, corruzione, in tutti i livelli c’è una parte di vero. Ci si sarebbe dovuti basare su spiegazioni parziali, ciascuno secondo il proprio campo e nel rispetto altrui, invece mi è sembrato che tutti volessero prendere il posto di tutti: il politico che fa i processi, la procura che manda la polizia in scuola con le gazzelle a sirene spiegate per le inchieste, lo psicologo che fa il giudice, l’avvocato che avvalora fatti mai accaduti, etc. in una confusa gara all’accusa, anziché comporre una prudente conoscenza interpretazione di ciò che stava accadendo, secondo i propri limiti e competenze.
Un delirio di allucinazioni l’accusa e una risposta delirante quella degli apparati, come nei casi più estremi della storia quando i “burocrati del male” diventano più pericolosi del cittadino impaurito e suggestionato. In questo buio della ragione, alla fine le luci hanno prevalso sulle ombre, svelando che il conflitto tra il bene e il male si era manifestato ovunque, anche tra i professionisti, mettendo a confronto preparazione ed etica della responsabilità.

Piergiorgio Vittorini
Credo che l’adesione acritica e spesso gravemente colpevole di molte intelligenze alle tesi accusatorie sia da ricercare in nello spirito gregario che seduce troppi e troppo spesso. La fragilità delle coscienze induce al consenso quando la corrente confluisce in una direzione e le voci di dissenso sono soffocate dall’accumulo del disprezzo e della condanna pregiudiziali. Opporre linearità di pensiero, disciplina, ragionevolezza a simili derive risulta spesso residuale impegno di pochi. Forse è eccessivo parlare di ombre e di luci. Sarebbe più adeguato ammettere la pericolosa ordinarietà del senso comune rispetto al positivo esercizio della regola processuale o, meglio ancora, scientifica, quando siano esperti chiamati a rispondere su quesiti specifici. Se anche la scienza si genuflette al clamore popolare c’è davvero da preoccuparsi, non tanto per la miseria del sapere, quanto piuttosto degli uomini che se ne adornano indegnamente.

Paolo Ferliga.
Con molta preoccupazione. Che a più di un secolo dalla nascita della psicoanalisi, che ha dimostrato come non vadano confusi i prodotti dell’immaginazione tipici dei bambini con resoconti realistici e come sia indispensabile conoscere la propria ombra, il proprio lato oscuro, per non proiettarlo sugli altri, stupisce che psicologi e giudici possano ancora essere condizionati da fraintendimenti talmente gravi da condannare, sulla base di semplici ipotesi astratte, degli innocenti. Più che la luce in questa vicenda prevalgono le ombre. Il dolore, la vergogna, le paure di chi ha subito accuse infamanti di pedofilia, difficilmente potranno essere superati dalle vittime.
Per come ho potuto ricostruire la dinamica dei fatti attraverso le notizie riportate dalla stampa e da alcune trasmissioni televisive, la vicenda nasce sia all’Abba che al Sorelli dalla preoccupazione di una mamma per alcuni comportamenti della figlia. Ciò che più stupisce però è che questa paura trovi in alcune psicologhe e poi in alcuni periti una cassa di risonanza che amplifica l’ansia dei genitori e contribuisce a diffondere in città il contagio psichico. Anche se la psicoanalisi non è certo una scienza esatta, stupisce che non sia stata presa in considerazione, almeno come ipotesi, la scoperta di Freud che spesso nella psiche dei bambini, come in quella dei nevrotici e dei primitivi, l’immaginazione prevale su senso di realtà e le fantasie di seduzione non coincidono con un trauma realmente vissuto. Questa consapevolezza avrebbe suggerito di non interrogare i bambini come se fossero degli adulti e di controllare che nelle domande dei genitori non ci fossero elementi proiettivi. In un’epoca in cui la pedofilia sembra più diffusa che in passato, una cautela e una distinzione tra piano fantasmatico e piano di realtà è d’obbligo, proprio per tutelare l’equilibrio psico - affettivo dei bambini e individuare chi commette davvero atti di pedofilia.
Per fortuna la città non si è completamente appiattita sulle tesi colpevoliste. Di fronte al contagio psichico, fin dall’inizio qualcuno ha mantenuto la propria capacità critica e, dopo aver raccolto informazioni dettagliate, si è impegnato pubblicamente per proclamare l’innocenza di tutti gli indagati e per gridare ai quattro venti che nelle scuole materne non c’era stato alcun atto di pedofilia. La fiaccolata guidata da Don Mario Neva sotto le mura del carcere in cui erano detenute le due maestre resta un’immagine che ci aiuta a coltivare la speranza che il contagio emotivo si possa evitare. L’impegno degli avvocati della difesa, che hanno condotto un lavoro paziente e di lungo periodo per ricostruire l’intera vicenda, ha contribuito poi a ristabilire la verità che i nuovi giudici hanno confermato.



4.    L'immagine della città di Brescia stessa è stata indubbiamente danneggiata in questi anni a livello nazionale e internazionale sia da una parte politica che, assumendo un atteggiamento populista, ha cavalcato gli eventi pronunciandosi ripetutamente e pubblicamente per la verità di fatti mai accaduti sia da coloro che hanno affermato pubblicamente e ripetutamente, sulla Tv nazionale e sulle reti Mediaset, la tesi, secondo la quale Brescia è una città satanica, il paradiso dei pedofili, la città nella quale i pedofili vorrebbero vivere... É giusto, è possibile, con quale modalità si può immaginare di riabilitare Brescia e le vittime innocenti di questa vicenda?

Carla Bisleri.
Combattere la violenza contro i minori, lo sfruttamento e la pedofilia è un dovere di tutti, ma non può diventare un pretesto per i paladini del caos e della confusione ( politici, avvocati professionisti o altro) per fabbricare guerre sulla paura, scandali e seminare terrorismo psicologico.
Con altrettanto dovere e rigore si devono combattere i sospetti e le false accuse, alimentate da un clima di caccia alle streghe, da volontà di fare i processi nelle piazze, di seminare conflitti e odio, fatti che purtroppo tocchiamo con mano ogni giorno.
Se la triste vicenda bresciana è stata anche il sintomo di una società divenuta fragile e violenta, a maggior ragione chi rappresenta le istituzioni politiche, civili o religiose, è chiamato a mantenere un atteggiamento prudente, affermare un comportamento etico responsabile per orientare, aiutare a discernere, praticare il rispetto dei ruoli, dei luoghi e delle persone.
Invece molti esponenti politici della nostra città hanno pericolosamente speculato sulle paure, incendiato le accuse, organizzato campagne di terrore e diffamazione, creato un clima di assedio verso le istituzioni, partecipato colpevolmente alla rissa populista e sostenuto associazioni di dubbia origine e finalità.
L’immagine della città è stata così doppiamente offesa e denigrata, un danno profondo, la cui riabilitazione è stata e sarà lunga e difficile.
Ho pensato e tuttora spero in una pagina di riconciliazione civile, verso le persone e le istituzioni. Non so ancora immaginare in che modo, ma l’invito che ho già espresso in altre sedi, a chiedere pubbliche scuse e riconoscere gli errori compiuti allora, quando nei panni di politici giustizieri, spavaldi e prepotenti, in molti hanno accusato in piazza e sulla stampa e tentato ripetutamente di azzerare il governo della città, è sempre aperto e valido.
Mi auguro che il valore della responsabilità e il desiderio di riparazione prevalga e chi non ha voluto o saputo scegliere, trovi oggi un valido motivo per cambiare, e sappia proporre con volontà e coraggio segni di dialogo e distensione.  
Un gesto collettivo che la nostra città si merita, e che in molti auspichiamo e attendiamo.

Piergiorgio Vittorini
Vorrei dare una sola risposta alle due rimanenti domande perché mi sembrano complementari.
Forse basterebbe consolarsi con una battuta, che potrebbe tuttavia assurgere a programma: gridare forte che ci sono giudici a Brescia. Semplice e chiaro.
Per chi non ritenesse che questo è troppo poco, suggerirei un esercizio più articolato e difficile: cominciare ad ammettere che la propensione alla sufficienza, all’approssimazione, all’autoassoluzione è vizio o difetto prima individuale e poi collettivo. Chi ha guastato prima il vivere civile della nostra città e quindi la sua immagine non è un guastatore venuto da fuori, ma la nostra insufficienza culturale, il tradimento (questo sì, vero e profondo) di un’educazione alla tolleranza ed al civismo che ha visto Brescia protagonista nei nomi di persone ed istituzioni che hanno fatto scuola qui ed altrove: dagli asili al palazzo comunale. Non esiste sortilegio che ci condanni né magia che ci assolva. Si guarisce con un esercizio costante, con un’opera di testimonianza che alcuni nostri concittadini (sacerdoti, suore, laici) hanno saputo praticare seppur fra mille difficoltà.
Il caso di Brescia  insegna che le luci della ribalta, la gestione politica delle indagini giudiziarie, la apodittica esecrazione che non distingua la pedofilia dalle persone indagate conduce a spirali perverse dalle quali anche il ripetuto affermarsi di sentenze di assoluzioni non riesce a riscattare soggetti, collettività ed istituzioni.

Paolo Ferliga.
Una comunità, per riabilitarsi, deve riconoscere i propri errori. Chi ha alzato la voce contro innocenti o ha dato spazio a organizzazioni che si autodefiniscono antipedofilia, ma che sfruttano le paure inconsce dei più, per loro interessi personali, dovrebbe riconoscere di avere sbagliato. Penso che anche gli operatori della psiche che hanno sostenuto le tesi accusatorie poi rivelatesi del tutto infondate debbano riflettere sui loro errori, particolarmente gravi in questo caso per il danno che hanno procurato sia ai bambini che ai genitori. Come dice Manzoni riproponendo il caso della Colonna infame, eretta a memoria dei crimini presunti commessi da due innocenti, fissare lo sguardo sopra gli orrori già conosciuti darà “un nuovo e non ignobile frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne ogni volta, si rivolgeranno anche, e principalmente, contro passioni che non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle nei loro effetti, e detestarle.” Solo riconoscendo l’Ombra, direbbe Carl Gustav Jung , il lato oscuro che alberga nella psiche, è possibile non proiettarla sugli altri. Riconoscere la propria colpa, sia a livello individuale che collettivo, è il passaggio indispensabile, per non proiettarla sugli altri, sugli innocenti. Mi chiedo se sia possibile oggi chiedere questo anche ai politici che in questa vicenda si sono fatti incantare dalle sirene dell’accusa.


5.    I casi clamorosi di accusa pedofila si moltiplicano al livello nazionale e internazionale: che cosa ci insegna il caso Brescia-Sorelli?

Carla Bisleri.
Anche se costituiscono un dramma, credo sia utile leggere questi fatti come segnali di una sofferenza, sintomi di una difficoltà, di una patologia da prevenire.
Nell’attuale società di massa e mediatica, anonima e individualista, dove si è allentato il controllo sociale della comunità, gli elementi già raccontati dal romanzo storico del Manzoni si amplificano ulteriormente. Viviamo un clima dove ciò che si teme non è la peste, ma l’angoscia diffusa per l’ignoto futuro, l’incertezza di un presente dai rapidi cambiamenti, il timore di uno sgretolamento apocalittico, su cui come è noto speculano abili profeti della paura. Il tutto aggravato da un mondo virtuale dove non si distingue più il vero dal falso, con il dominio della comunicazione si parla per stereotipi e pregiudizi, la notizia viene manipolata e distorta dai vari soggetti e a seconda dei diversi interessi. In una società rarefatta e senza vincoli, il tuo vicino può diventare nemico, la maestra con anni di esperienza una strega, il sacerdote un orco, la scuola un covo di immoralità e illegalità.
In questo “film” l’aggressore, l’estraneo che sparge violenza come l’untore, può nascondersi anche in un contesto conosciuto, minacciare i luoghi di vita comune, mettere in balìa le istituzioni Si è usato il pericolo pedofilia come una clava, per processare in piazza persone e contemporaneamente delegittimare le istituzioni educative, annullare le differenze, stravolte da un incubo collettivo. Un rovesciamento persecutorio e inquietante, paragonabile ad uno tsunami delle relazioni, lacerante e incontrollabile che ha lasciato sul campo “molte macerie, morti e feriti”.
Dopo questa vicenda il male, per me, non è più solo un’opinione sfuggente che può colpire qua e là, ma una struttura costitutiva della organizzazione sociale, che come ci ha insegnato H. Arendt  è banale nella causa, ma sempre devastante nella sua ottusa cecità.   
Sappiamo che ad un agire concreto fa da specchio una rappresentazione simbolica, talvolta più potente della realtà. Nel nostro caso, le inchieste, sulle quali ci sarebbe molto da dire e commentare, hanno mobilitato un fronte immaginario di presunte azioni che nel negare dati concreti evidenti, hanno improvvisamente materializzato sulla scena fantasmi spaventosi e paure incontrollate.
In un tempo e in uno spazio indefiniti, si è continuato a far circolare coattivamente la visione di malvagia violenza, inducendo una suggestione senza limiti che, in un crescendo di panico e sfiducia, condizionava anche i soggetti più cauti e scettici.
Ho cercato col tempo di leggere il messaggio implicito di questo accadimento, che si sta ripetendo in altri luoghi. Anche se nelle pieghe inaccettabili di un incubo violento e in larga parte strumentalizzato, mi sembra di poter cogliere un significato estremo: quando le istituzioni sono abitate da figure che abusano del loro potere, minacciano e generano mostri, si deve temere per i bambini, - nel simbolo - le parti che hanno bisogno di crescere ed essere protette, custodite, non maltrattate e violentate.
Una metafora sugli effetti perversi della mistificazione, sull’uso distorto e manipolativo del potere, e del dominio della paura, dimensioni presenti in politica e nel sociale, nodi cruciali e molto attuali, ma che il senso comune tende a rimuovere e allontanare.  
Un insegnamento che deve preoccupare e interessare soprattutto chi riveste ruoli di autorità, un monito per tutti a migliorare e rispettare il patrimonio di relazioni personali e comunitarie in cui viviamo, dalle quali la violenza, con le sue pericolose manifestazioni, deve essere bandita.

Paolo Ferliga.
La diffusione del contagio, che ha visto coinvolte ben quattro scuole materne, ha fatto di Brescia un caso di rilevo nazionale. Sappiamo però che, denunce di abusi poi rivelatisi falsi, hanno coinvolto altre città e che, in alcuni casi, come a Bergamo prima e a Rignano poi, ci sono associazioni che soffiano sul fuoco che nasce dalla paura e dall’ignoranza. Proprio perché agisce su dinamiche inconsce l’accusa di pedofilia produce sempre un risultato di tipo distruttivo. Per questa ragione viene usata anche nei conflitti tra coniugi: uno dei due, quasi sempre l’uomo, viene accusato dall’altro di abusi sui figli, che non ha commesso. Il meccanismo è sempre quello di proiettare sull’altro la propria ansia, la propria rabbia oppure i propri errori e le proprie paure.
Questa vicenda ci insegna alcune cose: 1. I meccanismi di proiezione della colpa sull’altro, che generano sempre ingiustizia e dolore, sono attivi oggi come in passato, perché si fondano su aspetti della psiche inconscia che permangono pressoché invariati nei secoli. 2. A livello collettivo è sempre presente il rischio di fare dell’altro il capro espiatorio delle proprie paure inconsce. É accaduto per gli untori e per le streghe in passato, per gli ebrei e per gli omosessuali, per gli zingari e per gli immigrati in epoca più recente. 3. Il contagio psichico oggi può diffondersi più rapidamente e più capillarmente grazie alle caratteristiche tecniche dei mezzi di comunicazione. 4. La società dei consumi, che tende a liquidare le differenze individuali e a omologare i comportamenti delle persone rende uomini e donne sempre più preda di forti emozioni inconsce, che rischiano di ottundere la luce della coscienza. 5. La rimozione della colpa, tratto tipico della modernità, favorisce la proiezione sull’altro che diviene così il capro espiatorio in grado di evacuare l’ansia collettiva.
Rivolgere lo sguardo dentro di sé per riconoscere errori e colpe, diviene allora il passaggio indispensabile affinché non solo i singoli, ma anche la città intera, ritrovino la propria dignità morale, e sappiano mostrare, a chi è stato vittima di una persecuzione ingiusta, tutta la loro solidarietà.