Intervista a cura di Antonello Vanni

Intervista a cura di Antonello Vanni, gennaio 2006

L’assenza della figura paterna nella nostra società è devastante per la crescita psicologica, affettiva e spirituale dei figli: “privi del padre, i figli faticano a entrare nel tempo, della storia e della vita”. Nell’intervista ne parla Paolo Ferliga, psicoterapeuta e filosofo, che ha affrontato questo argomento nel libro Il segno del padre nel destino dei figli e della comunità (Moretti&Vitali, 2005, con prefazione di Claudio Risé)

Intervista a cura di Antonello Vanni D. Prof. Ferliga, lei affronta il tema del padre, della sua assenza oggi, e del suo auspicabile ritorno, da un punto di vista inedito e in Italia non ancora considerato: quello psicoanalitico. Non a caso nel suo libro il lettore incontra, attraverso un percorso nella profondità della psiche umana, i miti, i sogni, le immagini religiose… Per quale motivo ha deciso di adottare questa angolatura di ricerca? R. Perché nel corso della mia esperienza clinica, come psicoterapeuta, ho verificato quanto la figura del padre segni profondamente la psiche di ciascun individuo. Sigmund Freud, il fondatore della psicoanalisi lo sapeva bene, ma nel corso del tempo, anche nei suoi discepoli, questa consapevolezza si è spesso offuscata. Anche l’altro grande maestro della psicologia del profondo, Carl Gustav Jung, lo sapeva, ma nei suoi scritti tende, secondo me, a sottovalutarne l’importanza, lasciando ai margini del suo interesse un’immagine che spesso compare nei sogni: quella dell’archetipo del Padre. D. La prima figura che ci viene presentata nella sua ricerca è quella shakespeariana di Amleto, che lei descrive come: “un figlio senza padre, che soffre fino alla follia per la sua perdita e deve affrontare da solo il mondo e la vita”. Perché Amleto è una figura emblematica della nostra epoca e delle sue nevrosi? R. Amleto è noto a tutti per la sua frase: “To be or not to be, Essere o non essere.” Rappresenta l’uomo che, in ormai piena epoca moderna, è incerto e dubita di tutto, anche del valore della vita. Di una sola cosa è certo, di un solo sentimento: del dolore che prova per la morte del padre. Non si tratta soltanto del padre personale che è stato ucciso dallo zio, ma anche del Padre celeste che, nella nuova concezione del mondo, occupa un posto marginale rispetto all’epoca antica e medievale. In questo senso Amleto rappresenta tutti quegli uomini e quelle donne che, nel presente, soffrono per l’assenza del padre, sia di quello personale che di quello divino, trascendente. D. Nel suo libro una parte rilevante è rappresentata dall’analisi dei sogni di uomini e donne che raccontano la loro sofferenza, dovuta all’assenza della figura paterna. Lei quale testimonianza può darci, partendo dal suo lavoro di psicoterapeuta, rispetto a questa sofferenza? Si tratta di un problema molto diffuso? E che conseguenze ha per la persona umana? R. Non solo oggi è un problema molto diffuso, ma ancora spesso sottovalutato per le conseguenze che lascia nella psiche di uomini e donne. Sempre più spesso anche giovani di venti/trent’anni si presentano nello studio dello psicoterapeuta per portare il loro dolore di figli e figlie senza padri. Nei casi più gravi tale assenza rende impossibile affrontare la vita e costruirsi una solida identità personale, in quelli meno gravi contribuisce spesso a strutturare un carattere debole e dipendente. Chi non ha avuto il padre o figure sostitutive del padre personale è quindi più facilmente preda della società dei consumi e dei suoi prodotti: dall’alcool alle sostanze stupefacenti, dalle immagini della televisione e del computer ai prodotti alimentari. D. Con molta precisione, lei descrive le conseguenze dell’assenza paterna sul figlio maschio e sulla figlia femmina. Vi sono differenze in questo malessere in relazione all’identità di genere dei figli? R. In un quadro simile, che comporta per entrambi i generi difficoltà suppletive nella formazione della propria identità personale, vi sono anche profonde differenze. Per quanto riguarda le similitudini, sia il maschio che la femmina senza padre, faticano nel costruire una solida identità sessuale. Per il maschio è più evidente: il padre rappresenta all’inizio quell’immagine che il figlio vorrebbe realizzare da grande. Senza di lui gli è più difficile diventare un maschio adulto, un uomo maturo. Anche la femmina però ha bisogno dello sguardo amorevole del padre per sentirsi davvero donna, per provare quella sicurezza nel proprio genere che inizialmente le viene dalla relazione con la madre, ma che poi ha bisogno di essere confermata dal padre. In entrambi i casi l’assenza del padre rende più difficile l’ingresso nella società e l’assunzione delle responsabilità che la vita adulta comporta. Per quanto riguarda le differenze, il maschio senza padre, se ne è privo fin da piccolo, viene profondamente colpito nell’istinto, fatica a sentire le proprie potenzialità maschili. La madre infatti può passargli tutto, con il suo amore e la sua presenza affettuosa, ma non l’istinto maschile di cui non è dotata. La figlia è invece colpita maggiormente negli aspetti psicologici profondi. Fa più fatica ad orientarsi nella relazione con gli altri e ad affrontare il mondo del lavoro. Può trovare difficoltà nell’incontrare un uomo da amare e con cui costruire una relazione profonda. D. Di grande importanza nel suo libro è la parte dedicata al fenomeno sempre più diffuso della “scuola senza padri”: secondo quanto lei dice, la scuola, privata dello specifica dimensione paterna, sta assumendo sempre più il carattere di un non luogo in cui l’iniziazione alla vita cede il posto a una inefficace comunicazione orizzontale di atteggiamenti psicologici e di comportamenti consumistici. Può spiegarci queste affermazioni? R. L’assenza del padre personale crea sempre un vuoto difficilmente colmabile. Fino a quando però altre figure maschili accompagnavano i padri nel difficile compito di educare e crescere i figli, quel vuoto poteva essere colmato. Nella nostra epoca, visto che nella scuola, che ha oggi il compito precipuo di educare e formare i giovani, stanno sempre più scomparendo gli insegnanti maschi, vengono meno quelle figure sostitutive (sul piano simbolico) del padre, così importanti per lo sviluppo psicologico dei giovani studenti. L’assenza di insegnanti maschi contribuisce inoltre in modo determinante, secondo me, a rendere sempre più debole l’autorevolezza complessiva degli insegnanti. Senza tale autorevolezza però, i contenuti che più sono legati all’ordine dei valori (impegno, coerenza, onestà intellettuale, coraggio, dedizione, sacrificio…) tendono a scomparire. Venendo meno l’autorità di chi sa, di chi ha già fatto esperienza, dei vecchi che le società del passato, con grande sapienza, ritenevano saggi, viene a mancare per i giovani l’esempio su cui strutturare, attraverso successivi passaggi di identificazione e dis-identificazione, la propria personalità. Al loro posto subentra il gruppo dei pari, del cui consenso i giovani hanno bisogno per sentirsi accettati. La legge del branco si sostituisce così a quella del padre, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti: aumento di atteggiamenti di tipo dipendente e consumistico a scapito di scelte individuali e personali. D. Nella sua ricerca, a fianco della parola padre compaiono molto frequentemente alcune parole che inquietano e interpellano l’uomo di oggi: quelle di destino, di chiamata, di vocazione. Rispetto a queste dimensioni fondamentali, l’essere umano stenta a dare una risposta se nella sua vita non c’è stato o non c’è un padre? E qual è il rischio laddove la persona umana non possa rispondere a tali domande? R. Come dicevo sopra, senza la presenza del padre viene meno il riferimento a quei valori che il padre incarna e che, in ultima istanza, richiamano gli individui alla necessità del sacrificio come esperienza ineliminabile dell’esistenza. La Tragedia greca e il Cristianesimo rappresentano in modo perfetto quello che intendo. L’uomo non può evitare, per i Greci, il suo destino tragico, quel destino che nel Cristianesimo è rappresentato dall’esperienza della Croce. Dopo la morte però, per Gesù c’è la Resurrezione. Il destino apparentemente senza senso che con la sua necessità schiaccia l’uomo greco, si trasforma nel cristianesimo in una chiamata, una vocazione appunto, che dà una direzione sicura alla propria vita. Sulla croce il Cristo si rivolge al Padre: umanamente disperato gli chiede perché lo abbia abbandonato. La croce rappresenta nello stesso tempo il dramma del figlio, abbandonato dal Padre, ma anche quello del Padre che, per essere tale, deve sacrificare il Figlio. Ma proprio nel momento dell’abbandono estremo quando con la morte si compie il destino del Cristo, la Resurrezione conferisce alla sua vita un nuovo orizzonte, apre ad un significato ulteriore: l’ascesa verso il Padre ricostituisce in forma compiuta la Trinità, dove Padre, Figlio e Spirito santo sono un'unica Persona. D. Oltre alle immagini provenienti dalla psicologia del profondo, il suo lavoro si riferisce a testi di carattere letterario e poetico, commentati secondo il tema. Uno dei più coinvolgenti e commoventi è il riferimento alla ballata Il re degli Elfi di Goethe, non a caso poi messa in musica da grandi musicisti che ebbero una particolare e sofferta relazione con la dimensione paterna (Schubert, ad esempio, che si trovò davanti l’immagine ingombrante e severa di un padre incapace di riconoscere la vocazione autentica del figlio, ma anche Beethoven che, attanagliato dal desiderio mai colmato di essere padre, si occupò con grande amore del nipote orfano Karl e di Gerhard, figlio di un suo vecchio amico di infanzia, con il quale si realizzò un’intesa devota fino alla morte del musicista). Il suo riferimento alla ballata di Goethe sembra indicarci però un aspetto più grave dell’assenza o disattenzione paterna nella nostra società: oggi i padri nella loro corsa sfrenata nel lavoro o verso il guadagno non si accorgono di ciò che sfugge loro dalle mani: la vita dei figli, che spesso viene rapita da forze oscure e pericolose. R. Nella ballata di Goethe il padre che porta a cavallo il figlio, non si accorge che il Re degli Elfi glielo rapisce. Il figlio manifesta al padre la sua paura. Ma il padre la sottovaluta credendo che si tratti di pura fantasia infantile. C’è nell’atteggiamento del padre una sottovalutazione dei pericoli che dal mondo della fantasia, potremmo dire della psiche, possono derivare al figlio. Oggi la psiche dei nostri figli è spesso colonizzata dalle immagini della società tecnologica e mediatica. Immagini spesso affascinanti, ma non sempre sostenibili da una psiche in formazione. Il caso forse più evidente e drammatico di rapimento sotto gli occhi inconsapevoli dei padri è quello dei genitori che scoprono troppo tardi alcune frequentazioni dei figli: alcool o droghe, ma anche sette sataniche o bande di giovani ‘bulli’. Con uno sguardo più attento sui figli è quasi sempre possibile cogliere il loro smarrimento, il loro bisogno di aiuto, la necessità di dire loro, in alcuni casi, di no e preservarli così dall’abbraccio mortale del Re degli Elfi. D. Oltre che la letteratura lei interpella, al fine introdurre e chiarire alcune tematiche sul tema del padre, anche immagini provenienti dal cinema: ad esempio la saga di Guerre Stellari in cui la ricerca del padre è strettamente correlata all’incontro/scontro con ciò che il padre (in questo caso Darth Vader) rappresenta di oscuro e terrificante nella vita umana. Chi è, e come si concretizza poi realmente, questo lato oscuro della figura paterna al quale ha dedicato un intero capitolo? R. Nei primi mesi di vita il bambino percepisce che il padre è portatore di un’energia diversa da quella della madre. Presto si rende conto che il padre detiene una forza che paragonata alla sua è infinitamente più grande. Fortemente ‘innamorato’ della mamma il bambino teme che il padre possa usare questa forza contro di lui. Confrontandosi però col padre scopre che quella ‘forza’, non necessariamente deve essere indirizzata contro qualcuno, ma può anche essere utilizzata per qualcuno oppure per realizzare un progetto, per conseguire un obbiettivo. Scopre insomma che l’aggressività opportunamente indirizzata si trasforma in un’energia positiva. In questo senso ogni figlio deve confrontarsi con quello che, all’inizio, gli si presenta come il lato oscuro del padre. Ma in alcuni casi i figli devono inoltre confrontarsi con gli aspetti non risolti del carattere paterno: aggressività incontrollata, talvolta legata all’uso di sostanze, irritabilità continua, oppure depressione e passività, disinteresse generale nei confronti della vita. La strada per i figli è in questi casi tutta in salita. Non solo non possono contare sull’alleanza col padre, ma anzi devono combattere contro di lui per preservare la propria identità. Come accade appunto in Guerre Stellari dove il giovane Luke deve affrontare un duello mortale col padre, passato al servizio delle forze del Male. D. Di una notevole importanza, all’interno del generale dibattito scientifico sulla paternità, è la riflessione da lei proposta per fare chiarezza su un concetto, quello di patriarcato, intorno al quale sono state prodotte e costruite numerose falsificazioni che hanno messo in cattiva luce la figura paterna, contribuendo a quella che viene definita da alcuni studiosi la “liquidazione del padre”. Qual è la riflessione su questo che lei indica ai lettori? R. Come spiego nel libro il termine patriarcato (che deriva dal greco patér/padre e arché/origine, inizio) non ha di per sé alcun significato negativo. La figura del Patriarca richiama l’iniziatore di una discendenza, che nella Bibbia, ad esempio, porta sulle sue spalle il peso di un’enorme responsabilità: basti pensare a Mosé o ad Abramo. Eppure nel linguaggio comune è ormai considerato un termine spregevole perché si attribuisce al termine greco arché il significato di potere e di comando. In questo modo si tende ad attribuire alla paternità un suo legame naturale col potere. Le cose però non stanno così! Anzi come mostrano alcune ricerche antropologiche, all’inizio la paternità si esprimeva soprattutto nella dimensione affettiva. Prima ancora che fosse riconosciuta la sua effettiva partecipazione all’atto della generazione, il padre donava ai suoi figli le sue cure e il suo affetto. La paternità non è connaturata al potere, ma piuttosto all’amore, al dono e al sacrificio. Ad Abramo Dio chiede il sacrificio estremo: essere padre vuol dire non tenere nulla per sé, nemmeno il figlio tanto desiderato e amato. Nella concezione cristiana d'altronde, Dio stesso sacrifica suo Figlio per la salvezza dell’umanità. D. Nella sua ricerca attraverso la profondità della psiche, si giunge finalmente al ritrovamento di un’immagine del padre che lei afferma essere originaria cioè presente da sempre nell’inconscio di ogni singola persona, ma anche dell’intera umanità da millenni. Secondo il suo studio questa immagine avrebbe, tra le altre, le caratteristiche della relazione con lo Spirito, il Significato, e il Vecchio Saggio. Chi è il padre in relazione a queste tre immagini e che ruolo ha in tal senso nella vita dei figli? R. Quella immagine originaria è l’archetipo del Padre. Carl Gustav Jung ha scoperto che nello strato più profondo dell’inconscio, che lui chiama collettivo, abitano delle immagini primordiali che si trasmettono essenzialmente immutate nel corso dei secoli. Simili alle Idee di cui parlava il filosofo Platone, queste immagini compaiono talvolta nei nostri sogni e se vengono opportunamente accolte, sono in grado di ampliare la nostra coscienza e di rendere migliore il nostro equilibrio psicologico. Tra i diversi archetipi Jung cita quelli dello Spirito, del Significato e del Vecchio Saggio e solo marginalmente quello del Padre. Nel mio libro spiego invece come quegli archetipi siano manifestazioni differenti dell’immagine del Padre: spesso solo riconoscendo l’importanza dell’archetipo paterno è possibile per il terapeuta aiutare i figli senza padre a costruirsi una figura interiore in grado di aiutarli nel loro cammino. Dall’archetipo del Padre proviene infatti quella saggezza che aiuta a compiere le scelte difficili della vita. D. Un altro aspetto, determinante anche nei suoi precedenti contributi al tema, è quello del padre come colui che insegna, testimonia e nutre il sapere della ferita. Questo sapere, che lei commenta considerando ad esempio la vicenda di Ulisse e Telemaco nell’Odissea, sarebbe indispensabile alla crescita dei figli ed al sano sviluppo della vita umana. Perché la ferita è il segno del padre, e quali pericoli subentrano per i figli che non l’hanno ricevuta? R. La ferita è il segno caratteristico del padre perché il padre è chiamato fin dall’inizio a separare il figlio dalla madre. Il figlio che ha bisogno nei primi mesi di vita di una simbiosi positiva con la madre, indispensabile per la sua nascita psicologica, permarrebbe volentieri per sempre in questa situazione. Si tratta di una situazione di beatitudine in cui ogni desiderio sembra immediatamente realizzabile. La madre è lì. Col suo abbraccio avvolgente e con il suo amore lo protegge e nello stesso tempo lo nutre. Ma se permanesse in questa situazione il figlio non diverrebbe mai se stesso, resterebbe per sempre un’appendice della madre. La presenza e l’intervento consapevole del padre invece, lo costringono e lo aiutano ad uscire dal Paradiso e ad iniziare il suo difficile cammino nella vita e nel mondo. La ferita inflitta dal padre assume così un carattere iniziatico. Come quella di Ulisse, questa ferita diverrà poi una cicatrice, segno di riconoscimento del figlio e del suo rapporto col padre. Senza questa iniziazione è molto difficile per un giovane diventare un adulto, responsabile della propria posizione nel mondo, in grado di reggere le prove che la vita sempre propone, e quindi incapace, quando la realtà presenta l’occasione, di essere felice. Di solito i figli senza iniziazione paterna sviluppano un atteggiamento spiccatamente dipendente dalla soddisfazione immediata del bisogno. Restano, in un certo senso, sempre bambini. D. Professore, il suo libro nasce con una premessa: la ricerca profonda dell’immagine del padre, sia nella vita dei singoli individui che nella più ampia dimensione della nostra comunità, è secondo lei indispensabile ma è anche e soprattutto terapeutica. Lei ha affermato che “quando qualcuno perde il padre è come se noi tutti lo perdessimo, condividendo con ogni sventurato le conseguenze e la sofferenza”. Qual è allora la direzione terapeutica che ha voluto indicare, a questa epoca fuori di sesto a causa della scomparsa della figura paterna? R. Essere padri comporta una forte assunzione di responsabilità, ma anche una grande gioia. In una società senza padri come la nostra, anche chi non ha un figlio naturale può oggi provare questa gioia che ha un duplice carattere terapeutico: per chi fa il padre e per chi sente di avere un padre. Basta che si guardi intorno e vedrà quanti giovani hanno bisogno di lui. Dal punto di vista della comunità tutti gli adulti possono assumersi responsabilità “genitoriali”. Quanto più manca la consapevolezza politica di questa necessità, tanto più ciascuno di noi è chiamato a farsi carico individualmente di quella paternità sociale che è indispensabile per la crescita umana delle nuove generazioni. Questo è il compito a cui tutti siamo chiamati ed è nell’assunzione di questo compito che si dischiude, per ciascuno, una nuova prospettiva, inizia un nuovo giorno e la luce del senso della vita si affaccia alla coscienza.